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Ho avuto modo di soffermarmi su di un aspetto che si affaccia nella mia sfera emotiva, tanto come semplice essere umano, quanto come persona che ha scelto di fare della Psicologia il proprio mestiere, mi riferisco alla capacità di “saper […]

Ho avuto modo di soffermarmi su di un aspetto che si affaccia nella mia sfera emotiva, tanto come semplice essere umano, quanto come persona che ha scelto di fare della Psicologia il proprio mestiere, mi riferisco alla capacità di “saper essere”.

Il terapeuta acquisisce il sapere ed i suoi strumenti di lavoro attraverso un percorso di formazione molto lungo, che richiede una forte componente motivazionale, e che prosegue al termine dell’università, con una ulteriore specializzazione di almeno quattro anni da conseguire presso una delle numerose scuole di Psicoterapia.

Non ho parlato a caso di “forte componente motivazionale”, ma ho scelto un concetto che ben si adatta alla mia storia e vita, avendo appunto intrapreso i percorsi sopra citati, è quindi la mia esperienza personale che desidero rivelare a quanti leggeranno.

Prima di iniziare la specializzazione come psicoterapeuta, avevo la convinzione, forse comoda, che nel mio mestiere tutto ruotasse attorno alla componente di capacità e professionalità, e che studio ed impegno assieme alla pratica ed esperienza, fossero il mezzo per raggiungere ciò, salvo poi scoprire che questo non è assolutamente sufficiente.

C’è un’altra componente infatti, metaforicamente la immagino come una scala da percorrere, senza la quale non saprei ad oggi immaginare di poter fare il mio mestiere, ed è semplicemente ciò che richiediamo ai nostri pazienti, “il lavoro su sé stessi”.

Noi professionisti del settore lavoriamo con ciò che appare inafferrabile, le emozioni, e come possiamo farlo se non abbiamo imparato a toccarle con mano? come possiamo imparare ciò se non partendo dal presentarci alle nostre di emozioni?

Si parla spesso di salute mentale, anche dello psicoterapeuta, aggiungerei un altro termine, quello di salute emotiva, ed il percorso di formazione dovrebbe attuare quel passaggio dal fare psicoterapia ad essere psicoterapeuti, iniziare quindi a conoscere sé stessi per imparare ad essere sé stessi.

Il terapeuta che ha intrapreso un percorso di terapia personale sa cosa voglia dire “essere il paziente”, conosce nella realtà e non per sentito dire sui testi il percorso difficile e talvolta caotico che la terapia comporta, ha la capacità di accogliere il paziente, di stargli accanto, di allearsi, di essere realmente presente e di “sospendere il giudizio”.

Indipendentemente da quale sia la causa che spinga una persona ad iniziare psicoterapia, la conoscenza di sé stessi è sempre l’inizio di una demolizione, si buttano a terra vecchie strutture disfunzionali, ci si riorganizza, ci si ricostruisce in modo più funzionale alla vita, alla propria vita.

Il terapeuta che si è tuffato nella terapia personale ha compreso che non saranno i suoi pazienti ad essere sbagliati, così come non lo era lui, e che spesso sono le nostre modalità disfunzionali di pensare e vivere le emozioni a provocare sofferenza, assieme a tante altre variabili personalissime.

La persona non è il problema, ha un problema.

Il futuro terapeuta, da paziente che viene aiutato dal suo di terapeuta, imparerà ad attivare ed utilizzare le risorse che sono in lui presenti, ma a cui non riusciva ad accedere perché impantanato nei soliti automatismi consolidati, saprà quindi da terapeuta aiutare il suo paziente anche in questo importante aspetto del nostro mestiere.

Sperimentarsi nel percorrere questa strada, a mio avviso, può essere molto utile ad ogni professionista del settore anche per abbandonare l’idea illusoria di avere o di dover avere la capacità di guarire i pazienti, difatti non è così, il nostro compito è diverso ed è di aiutare questi a sviluppare le loro risorse di auto-cura, affinché inizino a costruire la loro libertà attraverso l’assunzione di responsabilità, del fare delle scelte responsabili.

Non è la dipendenza dal terapeuta che si vuole far sviluppare, bensì l’autonomia, l’evolvere in sé stessi in quanto essere umani liberi di essere e di scegliere.

L’obiettivo è che la persona anche dopo la psicoterapia continui a crescere e a migliorare la propria vita, con i mezzi che ha a disposizione e che adesso sa utilizzare, riconoscendo eventualmente le circostanze in cui è invece utile chiedere aiuto.

Tornando su un piano più tecnico, mi capita spesso di riflettere sulle insidie che si nascondono nella terapia, e su cui ho fatto luce grazie al mio essere paziente, una su tutte: “il momento giusto”, o forse dovrei dire quello sbagliato, perché se è utile scendere e scavare nella profondità delle emozioni dolorose, per trasformarle, è ancora più utile avere la sensibilità di cogliere nel paziente lo slancio a ciò, il momento adatto, e solo se conosco in prima persona il sapore dell’impatto che inevitabilmente ci sarà posso offrire aiuto per  attutire il colpo.

Per gestire al meglio i processi di cambiamento delle persone, evitando rotture o accelerazioni controproducenti è utile sporcarsi le mani, vale la pena tuffarsi nella salita di quella scala dove ogni gradino è un nostro personale momento evolutivo, trasformativo e di acquisizione di consapevolezza.

Consapevolezza racchiude molte cose, qui sottolineo la consapevolezza di quegli aspetti personali che possono interferire con il lavoro di terapeuta, influenzando qualità e capacità di giudizio, quindi è quanto mai utile superare questioni irrisolte, nodi, blocchi, schemi ripetitivi ed insoddisfacenti, aprire circoli viziosi e liberare energie intrappolate, conoscere noi stessi per poter comprendere ed accogliere l’altro, scoprire l’altro, ma soprattutto, imparare ad accettarsi nelle molteplici sfaccettature, molte di esse ci piaceranno, altre meno, tuttavia se autentiche sarà gradevole accoglierle ed integrare quelle parti contraddittorie che formano la nostra totalità.

La psicoterapia è una professione troppo privata, difficilmente controllabile dall’esterno, è dunque del terapeuta la responsabilità di gestire non solo il setting ma anche la sua persona, dando voce alle difficoltà che incontra  confrontandosi coi propri limiti o momenti di forte stress, ascoltandosi ed ascoltare eventuali segnali di fatica o indizi che suggeriscono di rallentare, di riorganizzare i ritmi o ancora identificare quindi saper riconoscere le circostanze in cui è utile per sé e per i pazienti chiedere aiuto, ad esempio attraverso la supervisione, senza perdere mai di vista la consapevolezza che non si è e non si può essere invincibili.

Personalmente, prima del mio incontro con la terapia personale, in quanto fortunatamente previsto da molte scuole di formazione in Psicoterapia, ho anche io creduto di poter farcela sempre da sola, sono scivolata anche io in quello stereotipo secondo cui forza equivale a non chiedere aiuto.

Oggi posso dire di essermi sbagliata, e che il vero coraggio lo si misura dalla disponibilità di mettersi in gioco in prima persona, e che intraprendere il processo mediante cui ci si presenta a sé stessi non è assolutamente facile, anzi, è difficile, caotico talvolta, sino a quando riesci ad afferrare il senso di ciò che stai facendo, e la prospettiva cambia, hai la sensazione di vedere e sentire più cose come se qualcuno ti avesse strappato i paraocchi, sorprendentemente inizi a dialogare anche con il tuo corpo, scopri che ogni giorno esso è il primo a mandarti dei segnali importanti che siamo troppo abituati ad ignorare.

Scopri il tuo personalissimo ed unico mondo.

Oggi so che molte cose non possono essere studiate ma vanno vissute, è di noi professionisti il compito di superare per primi quella soglia di paura, diffidenza, stigmatizzazione.

Il terapeuta che stringendo la mano al paziente che ha di fronte stringe un pò la mano al paziente che è stato, sarà più naturalmente empatico e avrà il desiderio di starci realmente nell’esperienza dell’altro, come in un’avventura, e come sento dirmi spesso, il coraggio non esiste senza la paura.

Nel setting ci sono due poltrone, quella occupata dal paziente e quella occupata dal terapeuta, a mio avviso quest’ultimo deve saper sedersi su di entrambe.

Selene Anna Paolo


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