Da un po di tempo ho iniziato un’esperienza lavorativa che mi porta ad occuparmi della salute psico-emotiva di minori stranieri non accompagnati. Di frequente mi è stato chiesto in che modo riesco a lavorare con chi ha una cultura diversa […]
Da un po di tempo ho iniziato un’esperienza lavorativa che mi porta ad occuparmi della salute psico-emotiva di minori stranieri non accompagnati.
Di frequente mi è stato chiesto in che modo riesco a lavorare con chi ha una cultura diversa in cui non si è abituati alla figura dello Psicologo, e mi sono sempre detta: “perché, gli italiani lo sono?”
Non siamo forse noi i professionisti a cui poter rinunciare poiché la salute ed il benessere mentale ed emotivo possono attendere? Salvo poi giungere da noi quando dalla prevenzione si è scivolati nella necessità di cura? Pretendendo magari una soluzione in tempi rapidi?
Nei colloqui con i minori stranieri mi sono sempre trovata dinanzi a ragazzi che nonostante le loro paure, traumi, disorientamento, poca o nulla abitudine alla mia figura professionale, sono lì pronti ad affidarsi non appena viene abbattuta la barriera della diffidenza, e questo accade in un semplice modo: offrendo loro il nostro ascolto attivo.
Come con qualsiasi paziente gioca un ruolo centrale la fiducia, allora mi chiedo: “di quale diversità si parla?”
Nella realtà questi ragazzi mi insegnano molto, ad esempio che è possibile costruire una rete di affetti anche quando le persone più care sono distanti o del tutto assenti, è possibile adattarsi ad un contesto totalmente nuovo rispettandosi vicendevolmente, è possibile scoprire nuove competenze professionali e superarne la diffidenza, è possibile comunicare sentimenti di generosità e condivisione anche quando vi è l’ostacolo della barriera linguistica, a tal proposito non dimentico la veloce modalità che trovò un nuovo arrivato per invitarci a pranzare con lui e a mangiare ciò che aveva cucinato, ovvero prese le posate e ce le porse con il sorriso.
È un fotogramma rimasto in memoria.
Mi insegnano che anche i ragazzi ancora non adulti ma mai stati bambini hanno bisogno di sentirsi visti, ben voluti, importanti, e di riscoprire il potenziale del gioco e del divertimento, trasformandolo magari in gioco di squadra.
Mi insegnano che nel mio mestiere il comportamento non verbale comunica più delle parole, e che per una volta la non comprensione di una lingua straniera è l’opportunità di non essere confusi da esse, uno sguardo basso parla, delle mani tremanti parlano, un sorriso schietto parla, il tono della voce parla.
Ma soprattutto ci sono loro, le emozioni, e tutti ma proprio tutti le provano, sono così potenti ed universali che quando si parla di esse immediatamente svanisce qualsiasi differenza o distanza, si parla tutti lo stesso linguaggio universale.
“Ma quale diversità?”
A proposito di questo, ci sono poi loro, i Mediatori, persone che con pazienza diventano il ponte tra diverse lingue e culture, persone che ascoltano e rielaborano biografie difficili da ascoltare, figuriamoci da ripetere, per poi portare sulle spalle il peso di molti tristi racconti.
Uno di loro al mio “come stai?” mi ha temerariamente risposto sempre nello stesso modo, “sono vivo”, accompagnando queste due parole ora con il sorriso ora con tristezza, come a dire “indipendentemente da come mi sento, ciò che conta è che sono vivo”.
Ho impiegato un po’, ma adesso ho compreso che lui risponde a nome di tutte le storie che ascolta e che accoglie dentro.
Che bella esperienza ascoltarvi e raggiungere la vostra anima.
Grazie piccoli grandi ragazzi.
Selene